La storia dell’aia, un Gioiello del 1857

Prima di parlare dell’Aia e del suo museo “Vita Contadina del Novecento”, è opportuno fare un passo indietro nella storia e parlare del nobile casato milanese che ha voluto questo edificio, cioè quello dei conti Confalonieri Strattmann. A Verderio, nell’anno 1999, è stato costituito un archivio intercomunale denominato “Fondo Gnecchi Ruscone” nel quale sono confluiti tutti i documenti notarili e amministrativi passati delle varie proprietà, dal 1476 all’anno 1980 circa. Sono documenti preziosi che parlano di importanti progetti e dei protagonisti che hanno fatto la storia passata dei due paesi, Superiore e Inferiore, dal 4 febbraio 2014 unificati dalla Regione Lombardia solo con “Verderio”. Le prime carte dell’archivio risalgono al 27 aprile 1476 e altre ancora al 24 settembre 1512. In queste ultime si legge, con difficoltà e in un italiano un poco arcaico, che un certo Rinaldo Airoldo acquistò dei possedimenti in Verderio che erano di proprietà dell’Ordine delle Suore Agostiniane di Milano. In realtà, il cognome è stato scritto erroneamente perché, a seguito di una ricerca, è stato appurato che si tratta di un componente dell’alta nobiltà milanese della famiglia dei conti Ajroldi che avevano diversi possedimenti di case, cascine e terreni, nel raggio di un centinaio di chilometri dalla metropoli milanese.

In un archivio storico di Milano, è stato rintracciato anche un loro stemma risalente al 1337 nel quale è raffigurato un elmo sormontato da una corona a sette punte, segno di identificazione del contado, da un’aquila nera in campo giallo e da uno scudo a triangoli azzurri e grigi. Tutti questi simboli sono racchiusi da una corona di foglie azzurre, grigie e dorate. Per essere sinceri però, il primo e anche unico documento che parla di Verderio, è stato trovato dall’allora parroco del paese, don Giampiero Brazzelli (1957-1985) ed è molto più antico. Risale addirittura al 998 d. C. nel quale vi è scritto che il vescovo di Tortona, Liutfredo, venne chiamato a fare da paciere tra due consoli rurali, Riccardo e Valdrada, che si contendevano terre e possedimenti sul nostro territorio. Questo documento testimonia che Verderio è sicuramente di origine romana. Il nome potrebbe derivare da “Veredi”, una razza spagnola di cavalli che i romani usavano per la posta, oppure dal nome latino “Viridarium” che significa giardino.

Durante lo scavo per l’esecuzione di varie opere pubbliche, in particolare la fognatura nel centro storico, sono stati scoperti anche alcuni cunicoli di mattoni tipicamente romani. Inoltre, ci sono prove che, attorno all’anno 1100 d. C., a Verderio, in una corte del centro, viveva un Templare. Il suo nome era Dalmazio da Verderio, ma non si conosce molto altro. Risalendo nei documenti, si sa solo che probabilmente era un frate, nobile cadetto di una ricca famiglia originaria di Verderio che si era messo alle dipendenze di san Bernardo per diffondere l’Ordine sul nostro territorio, ma che era legato alla “precettoria templare milanese” dove era conosciuto come “frà Dalmazio da Verzario”, probabilmente derivante da qualche attinenza con il vecchio quartiere centrale milanese dove i frati risiedevano e lavoravano i prodotti dell’orto che usavano per il loro “ospedale”. Questa zona esiste ancora oggi, detta “verzée” (via Verziere).

Il suo stemma era disegnato sopra il grande camino di un salone del vecchio Comune e delle scuole elementari e lì vi rimase fino ai primi anni del 1900. Le varie ristrutturazioni l’hanno poi cancellato definitivamente, ma, fortunatamente, in quegli anni qualcuno ha ripreso una parte del suo stemma per riportarlo in quello araldico del Comune: l’elmo con i tre pennacchi. Il cavaliere templare Dalmazio da Verderio morì nel 1149, nella sua casa in centro paese. A conclusione dell’epoca dei Templari, avvenuta tra il 1312 e il 1314 per ordine del re di Francia, Filippo, detto il Bello, i possedimenti vennero smembrati e finirono ad altri proprietari. Con ogni probabilità, fu in occasione di tale avvenimento che si verificò anche la divisione tra i due Verderio “de sora” e “de sota”, ovvero, Superiore e Inferiore.

Confalonieri Strattmann, una famiglia antichissima

Ma torniamo ai nobili Confalonieri Strattmann e alla loro numerosa discendenza (il secondo cognome venne aggiunto nel 1774 dopo la morte di Margherita von Strattmann, contessa della corte degli Asburgo, sposata da Ansperto Confalonieri il 27 agosto 1726). Il primo documento originale conservato nell’archivio comunale risale al mese di luglio del 1631 e l’ultimo al 15 dicembre del 1888, ovvero l’atto di vendita di tutti i loro beni a Giuseppe Gnecchi Ruscone, imprenditore della seta, arrivato a Verderio attorno al 1824. A Milano, la famiglia Confalonieri era antichissima, nobile, ricca e molto stimata. Già nel 286 d. C. un loro cavaliere, con Elena, la madre dell’imperatore Costantino, aveva portato a Milano, nella chiesa di sant’Eustorgio, le reliquie dei Re Magi. Per questo motivo, la famiglia aveva l’onore di dare il benvenuto e porgere le chiavi della città ai nuovi arcivescovi che si insediavano in Duomo. Questo privilegio cessò all’inizio del 1900. Poi, sempre nell’archivio comunale, è un susseguirsi di migliaia di documenti che riguardano questa famiglia fino alla fine del 1800.

Per non dilungarci troppo, non ci fermeremo sui primi due secoli, ma ci occuperemo dell’ultima parte della loro presenza in paese. All’inizio del 1800 si parla di un certo conte Vitaliano Confalonieri Strattmann e del figlio Luigi, colui che a Verderio, nel 1856, costruì una delle più belle cascine lombarde denominata “Salette”, dedicata alla Madonna che nella stessa località francese apparve il 19 settembre 1846 a due pastorelli e, solo l’anno dopo, nel 1857, fece progettare e costruire l’Aia come centro industriale di essiccazione naturale delle granaglie, il bellissimo edificio recentemente restaurato dalla famiglia Verderio (che casualità lo stesso nome!), vanto del nostro territorio brianzolo. Entrambi gli edifici sono stati progettati e realizzati in un periodo storico tra il 1850/1860 in cui il processo di trasformazione dell’agricoltura da artigianale a industriale era in piena evoluzione.

La nascita del conte Luigi Confalonieri

Ma scopriamo chi era il conte Luigi Confalonieri.

Per conoscere questo nobile personaggio milanese abbiamo dovuto chiedere informazioni ad un attuale discendente che ha conservato, assieme ad altri, il cognome Confalonieri.

Nei documenti della Società Storica Lombarda è chiamato “Signore di Colnago” e “Patrizio milanese”, risiedeva in una grande villa al centro di Verderio Superiore (l’attuale Villa Gnecchi Ruscone, ora abitata da privati cittadini), nella quale, si dice, soggiornò anche Giuseppe Garibaldi, attorno alla quale si scontrarono le truppe napoleoniche e austro-russe il 28 aprile del 1799. Non si è trovata però alcuna immagine del conte benché la macchina fotografica fosse da poco inventata. Si racconta anche che il conte non si fece mai ritrarre dai pittori che in quegli anni immortalavano sulla tela le famiglie patrizie da tramandare ai posteri. Di lui si sa solo che era alto di statura e che era una persona molto schiva. Il conte Luigi Confalonieri nacque a Milano il 13 novembre 1805, da Vitaliano e dalla contessa Maria Modignani.

Il 16 agosto 1827, a soli 22 anni, sposò donna Maria Vigoni, figlia di don Gaetano, signore di Massalengo (Milano) e di Paola Casati dei conti di Spino d’Adda (Cremona). Dal matrimonio nacquero tredici figli, ma da un suo documento testamentario, redatto pochissimo tempo prima della sua scomparsa, ne risultano solo sei: Gaetano, Ansperto, Eugenio, Teresa, Margherita e Giulia. Gli altri sette vennero depennati dall’eredità perché alcuni presero i voti, mentre altri morirono appena nati o prima del testamento del padre. Nell’ultimo documento testamentario del conte Luigi, redatto il 31 agosto 1885, pochi giorni prima della morte, non vennero citati quindi i figli religiosi e quelli defunti. Si sa per certo che il conte era una persona di grande fede e di spiccata generosità. Sollecitato dal cugino Adeodato Bonzi, padre carmelitano, trattò, nel 1855, l’acquisto della chiesa e del convento della “Madonna del latte” di Concesa (Trezzo sull’Adda), che la famiglia Bellazzi, allora proprietaria, aveva trasformato in filanda. Due anni dopo, il 6 novembre 1857, avuto il benestare austriaco e della Curia arcivescovile di Milano, regalò ai padri carmelitani di Lombardia il santuario e il convento con l’annesso orto.

Il Progetto

Il progetto dell ‘aia affidato all’architetto Gaetano Besia

Il conte Luigi Confalonieri era proprietario di una immensa fortuna: oltre a case e terreni a Paderno d’Adda, Robbiate, Cornate d’Adda e Colnago, possedeva nel nostro paese la quasi totalità delle case e delle cascine e ben 845,55 pertiche di terra (560 mila mq circa). Negli anni migliori della sua vita, il conte aveva fatto costruire alcuni palazzi in Milano tanto da esporsi enormemente con i creditori. Per questo, si dice fu costretto a vendere diversi possedimenti fuori Milano per sanare un debito di circa due milioni di lire che, rapportati ad oggi, ammonterebbero a oltre otto milioni di euro. Decise quindi di vendere tutti i beni di Verderio a Giuseppe Gnecchi Ruscone, compresa la Villa Confalonieri e l’Aia che aveva fatto costruire nel 1857. Dopo questo preambolo, necessario per conoscere la storia di Verderio e la persona del conte Luigi Confalonieri, torniamo al suo grande capolavoro:

l’Aia.

Con grande lungimiranza, nel 1857 il conte conferì all’architetto Gaetano Besia, uno dei professionisti tra i più conosciuti e richiesti nella cerchia lombarda e che seguiva già tutte le costruzioni di famiglia in Milano e dintorni, di progettare un nuovo edificio per Verderio per soddisfare tutte le esigenze del momento. L’edificio doveva avere lo scopo principale di un centro di raccolta nell’essiccare le granaglie in tempi brevissimi per poi essere immesse direttamente sul mercato evitandone lo stoccaggio in magazzini. Si anticipava così l’immissione sul mercato dei prodotti con una indiscussa qualità e valore economico aggiunto. Inoltre, si evitava l’ingombro, per periodi più o meno brevi, delle aie tradizionali innalzando il comfort abitativo dei contadini. Tempi, richieste di minore aree produttive, qualità e valore dei prodotti, non ultimo il controllo diretto degli introiti, hanno permesso la concentrazione del progetto e l’edificazione del sontuoso edificio denominato Aia su una superficie contenuta in 2.000 mq.

La lunga carriera di Besia

Prima però di continuare a illustrare il progetto Aia, è necessario aprire una piccola parentesi per parlare della lunga carriera di Besia. Gaetano Besia è nato a Milano il 12 marzo 1791, figlio unico di un tappezziere milanese e di Maria Besana. I suoi studi presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera iniziarono nel 1807, quando risulta iscritto al corso di Elementi di Architettura. I suoi maestri furono tre grandi architetti ai quali rimase sempre fedele: l’abate Giuseppe Zanoja (1747-1817), Carlo Amati (1776-1852) e Giuseppe Levati (1739-1828). Dopo il corso ottenne una sovvenzione triennale per il compimento degli studi a Roma (1809). Tornato a Milano, fu assistente di Zanoja, poi, nel 1813, venne inviato a Treviso come professore di disegno architettonico. Nel 1830 tornò a Milano e il 18 maggio dello stesso anno entrò a far parte della Commissione d’Ornato, (un esecutivo di persone competenti con l’incarico di esprimere decisioni che riguardavano lo sviluppo della città: la commissione edilizia di oggi) sostituendo il vecchio Giacomo Albertolli ed in essa vi rimase per quarant’anni. La carica gli venne conferita dall’allora Governo Lombardo.

A riconoscimento del suo grande impegno, nel 1839, fu anche insignito del titolo di “Socio corrispondente del Royal Institute of British di Londra”. Nel 1851 fu nominato professore interinale per l’istruzione degli ingegneri architetti nella scuola d’architettura presso l’Accademia delle Belle Arti, ottenendo la direzione della scuola fino al 1859.

Morì a Milano l’8 ottobre 1871 nella sua casa di via sant’Antonio e la sua salma venne tumulata nel Cimitero Monumentale.

Le grandi opere dell’architetto

Tra le sue opere in Milano, vanno ricordate: la ricostruzione del palazzo Vidiserti, poi Dozio, in Monte Napoleone, Palazzo Archinto, in contrada Santa Maria della Passione; Palazzo Seufferheld, ora Bergamasco, in via Morone. Numerose le fabbriche che nella lunga carriera professionale progettò a Milano e disseminò nella provincia e diverse abitazioni per case nobiliari, come quella per la marchesa Paola Litta Castiglioni, a Porta Venezia; la casa D’Adda, poi Lattuada in via Gesù; la casa Bagatti Valsecchi, in via Gesù e, infine, la casa Stampa Soncino in via sant’Andrea. Curò inoltre il riordino del convento di san Pietro in Gessate; costruì le scuole di Bassano Porrone; presiedette alla riforma della basilica di Santo Stefano e progettò l’ampliamento dell’Ospedale Maggiore. Fuori Milano: disegnò la chiesa parrocchiale di Ornago; costruì la Villa Mylius a Laveno; la Villa Seufferheld a Vimercate; la villa Vigoni a Como; una sala teatrale a Cernobbio per Carolina di Brunswick, principessa di Galles; un grazioso teatro a Canzo, per i villeggianti; la casa Stanga Bolognini a Costa di Agliate; un fabbricato per uso scuderie per gli Archinto, a Cantù e, infine, il Teatro Garibaldi di Vimercate. Gaetano Besia, oltre che un amico, era anche l’architetto di fiducia della famiglia Confalonieri Strattmann, che a lui assegnò l’incarico di progettazione e costruzione delle proprie ville sparse nel milanese: a Verderio, a Carate Brianza, a Caidate e in altre zone.

Besia non disdegnava neppure di progettare case coloniche. Tra le più importanti, quella di Verderio, la cascina “Salette”. Per apprezzare meglio la sua ingegnosità, è opportuno soffermarsi un attimo su questa cascina per descriverne la bellezza, ma soprattutto la sua grande funzionalità. Attorno all’anno 1850, il conte Confalonieri conferì all’architetto l’incarico di predisporre un progetto per una maestosa e grande cascina, all’ingresso di Verderio. I lavori di costruzione durarono sei anni circa e nel gennaio del 1856 il conte l’assegnò a quattro numerose famiglie del paese, (Frigerio, Aldeghi, Colombo e Oggioni) con annessi diversi appezzamenti di terreno fertile, idoneo per la coltivazione dei cereali. Il corpo centrale della cascina, riservato alle abitazioni, era rivolto a sud per godere la luce del sole fino al tramonto. Le cucine, precedute da ampi porticati, erano al piano terreno, mentre nel rialzato si trovavano le camere da letto, precedute da grandi loggioni. In ogni cucina c’era un grande camino, elemento indispensabile per la famiglia contadina e unica fonte di riscaldamento di tutta la casa.

Le camere da letto erano ampie e vi dormivano tutti i componenti della famiglia, in diversi letti matrimoniali o singoli, divisi solo da una tenda. Ai due lati del corpo abitativo, oltre ai servizi igienici appartati, vennero erette le stalle e, sopra di esse, i fienili. Le porte delle stalle erano ampie, di giusta misura per poter far passare una grossa mucca, mentre il pavimento era originariamente di sassi, poi di cemento. Al centro della cascina vennero predisposti due cortili divisi da un largo viale centrale di rizzata che portava al grande portone in legno massiccio dell’ingresso. Sul lato sinistro dell’ingresso si trovava un pozzo per l’acqua e dall’altro, una cisterna per raccogliere l’acqua piovana che serviva per abbeverare gli animali. I tre corpi dell’edificio erano racchiusi da una alta mura di cinta a prevenzione di possibili furti, frequenti anche a quei tempi. I materiali per la costruzione erano quelli reperibili in loco, ovvero legno, pietra, ciottoli, mattoni e argilla.

Ma la particolarità di questa cascina voluta dalla famiglia Confalonieri e progettata dall’architetto Besia, consisteva nella grande cappella posta al centro delle abitazioni, nella quale trovava posto un altare di marmo e una nicchia con la statua, a grandezza naturale, della Madonna e dei due veggenti, Melania e Massimino, con le stesse caratteristiche descritte nell’apparizione avvenuta il 19 settembre 1846 a La Salette, una località montana delle alpi francesi. A ricordo della lunga carriera professionistica dell’architetto Gaetano Besia, il 1° giugno 1879 venne posta un’erma (pilastro sormontato da testa, opera dello scultore milanese Alessandro Martegani), all’ingresso dell’Accademia di Brera. Ma, dopo questa breve parentesi, necessaria per sottolineare la grande professionalità del Besia e della lungimiranza di un conte, torniamo alla storia dell’Aia.

Un ingegnoso e rivoluzionario cortile

Un ingegnoso e rivoluzionario cortile rialzato per l’aia di Verderio

Erano gli anni della grande raccolta del baco da seta, del frumento, del granoturco e di altri cereali che i mezzadri versavano ai proprietari per pagare l’occupazione delle terre e delle case in coincidenza con la grande evoluzione dell’agricoltura in atto, da singolo contadino ad artigianale e, più tardi, a pre-industriale. Occorrevano quindi in paese dei magazzini di raccolta, ma anche degli uffici per la contabilità. Da questa esigenza scaturì la lungimirante idea di creare un unico centro di raccolta con annessi gli uffici per la contabilità ordinaria, in posizione strategica, equidistante dalle cascine di proprietà su un’area molto contenuta, e vicina alla villa padronale. In tal modo poteva avere un unico e diretto controllo della produzione prima della vendita. Esattamente un anno dopo nel 1857, il conte Luigi Confalonieri, non ancora pago della sua ambizione per la cascina “Salette” appena terminata, decise di dare nuovamente l’incarico all’amico architetto Gaetano Besia, per costruire, questa volta in stile imprenditoriale e senza badare a spese, un edificio commerciale per le sue attività amministrative, ma anche con lo scopo di agevolare il contadino che lavorava le sue terre. Dalla necessità di avere un unico centro di raccolta, nacque l’ingegnosa idea di progettare un edificio con annesso un cortile che prevedesse anche un ciclo di lavorazione finale per l’essiccazione dei cereali, soprattutto frumento e granoturco.

L’idea innovativa fu quella che consentisse di creare un cortile rialzato, per anticipare i tempi di raccolta, ottenendo dei prodotti di altissima qualità e in ottima condizione, già asciutti e non umidi, al fine di immetterli come “primizie” sul mercato, spuntando un prezzo di vendita più favorevole e remunerativo. Altro vantaggio, non trascurabile e rivoluzionario per quei tempi in evoluzione, fu quello di liberare i cortili e le aie delle cascine favorendo altre attività più vicine alla “vita sociale” dei contadini, aumentando il “comfort abitativo” e le loro entrate economiche “naturali”. L’esempio classico è stato quello di usufruire delle aie e delle corti per grandi pranzi in amicizia. Più gruppi di famiglie, tra loro parenti, ma anche con conoscenti, si radunavano per festeggiare il raccolto e per sdebitarsi a vicenda del duro lavoro della mietitura, trebbiatura del frumento e raccolta del granoturco: una festa contadina di ringraziamento, per intenderci. Inoltre si incrementavano anche le possibilità di allevare più animali da cortile favorendo la propria indipendenza alimentare. La soluzione, progettata dall’architetto Gaetano Besia, è stata quella di realizzare una costruzione, posizionandola a sud/ovest della villa padronale, distribuita su una superficie di 2.000 mq, composta da un edificio di un solo piano con un ampio cortile rialzato, posto a sud, su un’area di circa 650 mq.

L’opera è poi stata completata e racchiusa con un alto muro di cinta perimetrale. Il cortile rialzato è stato orientato e posizionato così per sfruttare l’irraggiamento solare nell’arco di tutta la giornata; costruito con lastre sospese in granito di Montorfano poggianti su una serie di colonne in mattoni pieni, a loro volta poggianti su muri in sasso, in modo da ricavare dei sottostanti cunicoli per una ventilazione naturale. Questo progetto, rivoluzionario per quei tempi, serviva appunto per una corretta e veloce essiccazione delle granaglie e la ventilazione, controllata dalle correnti d’aria sotto le lastre di granito, manteneva la temperatura costante sulla superficie d’appoggio delle granaglie: questo per evitare la tostatura, ovvero, l’effetto “pop corn”, garantendo così una perfetta asciugatura ed essiccazione. Nel 1859 il Conte Luigi Confalonieri provvedeva a modificare il tracciato della strada proveniente da Paderno d’Adda che si collegava con la Cascina dei Prati adattandola ad un percorso più lineare che comprendesse anche il passaggio a fianco dell’area predisposta per la costruzione dell’Aia in prossimità dell’entrata. Come si può rilevare dalla cartografia del tempo, la modifica della strada ha permesso di ricavare anche l’area destinata successivamente, con gli Gnecchi Ruscone, al Parco del Nettuno posto di fronte alla villa padronale. Tracciato delle strade che ancora oggi vengono utilizzate. Questo progetto, rivoluzionario per quei tempi, serviva appunto per una corretta e veloce essiccazione delle granaglie e la ventilazione, controllata dalle correnti d’aria sotto le lastre di granito, manteneva la temperatura costante sulla superficie d’appoggio delle granaglie: questo per evitare la tostatura, ovvero, l’effetto “pop corn”, garantendo così una perfetta asciugatura ed essiccazione.

Nel 1859 il Conte Luigi Confalonieri provvedeva a modificare il tracciato della strada proveniente da Paderno d’Adda che si collegava con la Cascina dei Prati adattandola ad un percorso più lineare che comprendesse anche il passaggio a fianco dell’area predisposta per la costruzione dell’Aia in prossimità dell’entrata.

Come si può rilevare dalla cartografia del tempo, la modifica della strada ha permesso di ricavare anche l’area destinata successivamente, con gli Gnecchi Ruscone, al Parco del Nettuno posto di fronte alla villa padronale. Tracciato delle strade che ancora oggi vengono utilizzate. L’Aia così concepita, situata in una posizione strategica, diventava un esempio unico esistente in Brianza (oggi si può affermare in tutta Europa) come “centro di raccolta ed essiccazione industriale” costituendo un punto di riferimento per tutti gli addetti e i contadini della zona. La realizzazione dell’Aia, unitamente alla presenza della villa padronale, ha fatto sì che la sua architettura assumesse un’identificazione caratteriale di elevata importanza e indipendenza. Infatti, la costruzione, non doveva essere vista come una lussuosa abitazione di dipendenza dalla villa padronale, ma semplicemente come un ambizioso e imponente ufficio commerciale aperto al pubblico dove gli addetti esterni, i contadini e i lavoranti al soldo del “signore”, trattavano gli affari e dove venivano custodite le merci con la dovuta discrezione e sicurezza. L’edificio era ed è tuttora circondato da un alto muro di cinta in sassi, con un cappello di tegole.

L’immobile poggia su un basamento e vi si accede da una scala coperta da un piccolo pronao (parte anteriore d’ingresso) con colonne in arenaria molera. L’edificio è formato da un unico corpo che ingloba un portico con cinque archi in stile arabo. Le finestre, come le porte, hanno le cornici dalle forme arabeggianti. Sul tetto si erge un camino ottagonale con copertura in rame a forma di bulbo di cipolla. Le persiane e le porte di accesso si aprono scorrendo all’interno del muro e i serramenti sono ad apertura verticale. Degno di nota è anche l’originale soffitto a volte, affrescato nei sette locali con importanza ed eleganza. Il muro alto che circondava l’Aia proteggeva le messi dai venti, senza ostacolare i raggi del sole. Inoltre, al cortile fu data un’inclinazione, quasi impercettibile all’occhio, ma sufficiente al deflusso dell’acqua piovana. Ai lati del cortile sono state messe quattro colonne di ghisa con i ganci utilizzati per appendere i sacchi di grano e le bandiere segnavento che indicavano le direzioni delle correnti d’aria. Nel 1859 il Conte Luigi Confalonieri provvedeva a modificare il tracciato della strada proveniente da Paderno d’Adda che si collegava con la Cascina dei Prati adattandola ad un percorso più lineare che comprendesse anche il passaggio a fianco dell’area predisposta per la costruzione dell’Aia in prossimità dell’entrata. Come si può rilevare dalla cartografia del tempo, la modifica della strada ha permesso di ricavare anche l’area destinata successivamente, con gli Gnecchi Ruscone, al Parco del Nettuno posto di fronte alla villa padronale. Tracciato delle strade che ancora oggi vengono utilizzate.

L’Aia così concepita, situata in una posizione strategica, diventava un esempio unico esistente in Brianza (oggi si può affermare in tutta Europa) come “centro di raccolta ed essiccazione industriale” costituendo un punto di riferimento per tutti gli addetti e i contadini della zona. La realizzazione dell’Aia, unitamente alla presenza della villa padronale, ha fatto sì che la sua architettura assumesse un’identificazione caratteriale di elevata importanza e indipendenza. Infatti, la costruzione, non doveva essere vista come una lussuosa abitazione di dipendenza dalla villa padronale, ma semplicemente come un ambizioso e imponente ufficio commerciale aperto al pubblico dove gli addetti esterni, i contadini e i lavoranti al soldo del “signore”, trattavano gli affari e dove venivano custodite le merci con la dovuta discrezione e sicurezza. L’edificio era ed è tuttora circondato da un alto muro di cinta in sassi, con un cappello di tegole. Così prese forma l’Aia, una sontuosa e magnifica realizzazione piena di fascino che il 15 aprile 1863, a lavori ultimati, venne aperta e iniziò a funzionare come punto di raccolta ed uffici commerciali. Tutto quanto descritto, dopo l’abbandono dell’edificio avvenuto nel 1962, è stato restaurato e portato agli antichi splendori dalla famiglia Verderio nel 2004, su progettazione dell’architetto Bruna Galbusera di Vimercate in completa sinergia con la Soprintendenza del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali.

Iconografia architettonica

Ciò che colpisce di questa opera sono soprattutto lo stile e la simbologia presente nelle decorazioni di facciata. Per questo viene spontanea anche la domanda: “Ma perché così tanto lusso e decorazioni esterne e la scelta di uno stile così eclettico in una costruzione simile?” È una domanda che sicuramente ogni visitatore si pone nel cercare di interpretare i simboli e le cromatografie della “veste architettonica” (l’unica in questo stile dell’architetto) alla quale è difficile rispondere anche perché Besia non ha lasciato relazioni scritte sulla progettazione dell’Aia. Come è già stato detto il conte Luigi Confalonieri era una persona molto riservata e profondamente religiosa e tutto questo ha influenzato la scelta architettonica. Ma per saperne di più sullo stile, ci siamo rivolti anche all’architetto Samuele Villa, che, dopo approfondite ricerche sull’operato dell’architetto milanese Gaetano Besia, anche se di difficile comprensione per i non addetti ai lavori, ci ha illustrato tecnicamente la sua opinione professionale:
All’interno di questi concetti sulla nuova scienza e la semplificazione del lavoro si pone, nel nostro territorio, il complesso Aia che, nel contempo, sfruttando le naturalità del mondo contadino e attraverso l’industrializzazione del complesso sviluppo di trasformazione dei principali prodotti del luogo: il granoturco e il frumento, concretizza l’esigenza della borghesia illuminata che da una parte ricava un maggior utile sul latifondo e dall’altra solleva le incombenze dei contadini.

Collante dei nuovi estetismi dovuti all’idealizzazione del sociale e dell’universalità nell’architettura è lo stile che ricompone in sé le varie componenti semantiche, l’eclettismo, che, attraverso geometrie, tessuti materici e simbolismi riunisce i vari stili post-impero del neoclassico con il positivismo della scienza e delle nuove tecnologie. Nasce così il fabbricato che, sfruttando l’innovante struttura sopraelevata di blocchi monolitici in granito di Montorfano, diventa “macchina” per l’accelerazione dei processi di essiccazione e quindi di veloce produzione e vendita delle messi prodotte. Essa sfrutta la pietra, quale materiale di grande induzione termica e notevole massa, che ha in sé proprietà di alta evaporazione sfruttata dall’aria latente sulle due facce. Nel contempo vengono cinte da alte mura che preservino il prodotto sia dall’accesso di malintenzionati che da eventi meteorici-climatici. Il manufatto Aia viene ulteriormente protetto, sul fronte nord, dalla costruzione di locali contabili che con il fronte rivolto a sud da ulteriore apporto calorico all’Aia. Soffermandoci su questo corpo si nota che è stato eseguito con materiali autoctoni, cioè locali, ma con impegno cromo-materico di indubbio livello semantico, lo stile prettamente “arabeggiante”, però, non deve trarre in inganno per le simbologie e le geometrie adottate. Al primo impatto visivo si nota la prevalenza di “lune a barchetta” o “Hilal” (definizione islamica) sia sulla cipolla del grande aeratore del tetto, che sui “pali-carrucola” agli apici dell’Aia, essa è secondo la lettura sia religiosa che arcana così definita popolarmente

“La prima luna crescente ha con sé le energie del seme, densa di promesse, nascosta. Compagna della sua Luce, se ne discosta appena, per pochi momenti. Richiede attenzione, per essere vista, come i semi di una nuova vita nel grembo di Madre. Figlia della Notte, fecondata dall’incontro con il suo Sole, è delicata e diafana. La sua energia è quella della speranza, dell’intuizione, di quell’Apertura che del Femminile è potenza”.

I due esempi descritti dall’architetto Samuele Villa sulla “luna a barchetta”, simbolo di femminilità, fertilità e maternità: quello religioso ai piedi della Madonna Immacolata (una scultura di Angelo Canepa del 1889, voluta dal santo fondatore delle suore dell’Immacolata di Genova, don Agostino Roscelli) e quello arcano nella statua di Diana, dea della caccia, presente nel parco ex Villa Confalonieri di Verderio. Interpretando la profonda fede cattolica del conte Luigi Confalonieri, l’architetto Besia usa simboli iconoclastici consolidati anche dalla Chiesa. La “luna a barchetta” in quanto simbolo per eccellenza di femminilità, fertilità e maternità, diventa nei secoli la base su cui poggia l’immagine “mariana”. La base ottagonale, posta in copertura dell’edificio, sorregge la cipolla e culmina con una luna a barchetta, che indica la rinascita e la rigenerazione. L’ottagono serviva a rappresentare i sei giorni della creazione divina dei cieli e della terra, il settimo giorno di riposo e l’ottavo giorno in cui i cristiani “rinascono”, cioè si rigenerano attraverso il battesimo.

Pure la facciata, trattata con ritmi classici delle cascine, si vedano le cinque campiture ad arco della facciata sud, ha sistemi di chiusura e decorazione di livello estetico-funzionale consoni a case di pregio nell’epoca, la stessa per buona parte dell’estensione è trattata ad encausto con getrie simboliche. Il doppio quadrato la cosiddetta “quadratura del cerchio” sempre concernente alla forma ottagonale come attributo matematico, è il primo numero cubico e il numero delle note musicali, che per la scala islamica sono otto anziché sette; qualità fisiche del mondo come già furono descritte dai Greci. La stella a otto punte (simbolo della forma attiva) è contenuta in un esagono (simbolo della forma passiva); stella a otto punte ed esagono costituiscono i due principi positivo e negativo, o maschile e femminile, dando così la forma materiale completa. La forma, si veda al numero quattro, viene rappresentata dal quadrato; qui abbiamo due quadrati sovrapposti incrociantisi, o stella a otto punte, figura geometrica che simbolizza il ritmo continuo positivo-negativo, introversione-estroversione, o contrazione-espansione; unione-separazione; sobrietà-ubriacatura; estinzione-perennizzazione; presenza-assenza; disvelamento e occultamento.

Si nota il pronao con capitelli ribaltati di evidente pulizia, quasi “a fiore di loto egizi”, trattati con pietra locale di molera e la particolare tipologia delle tegole in cotto, che posate con forte pendenza, sono state realizzate con peduncoli di aggancio sull’orditura listellare. Pure le campiture e le colorazioni, ocra azzurro terra bruciata (vedi foto pagg. 58 e 60) colori naturali trattati come cocciopesto, un intonaco a base di calce brillante e resistente all’acqua, questi colori ripropongono i simboli arcani Terra-Acqua-Aria-Fuoco delle attività ancestrali dell’attività agricola. Dal punto di vista fruitivo si notano diverse soluzioni, che all’epoca furono precorritrici, come le ante oscuranti a scomparsa nelle pareti di tamponamento, il solaio di copertura dotato di camino aerante per dissipare il notevole calore derivante dal grande impalcato Aia, la possibilità dell’accosto dei carri al piano Aia e dell’uso tramite carrucole per lo spostamento dei carichi di granaglie e della canalizzazione di tutte le acque percolanti in condotti affiancati ai muri perimetrali che salvaguardavano le imbibenze osmotiche ed atte a preservare l’integrità dei materiali costituenti le strutture edili.

In conclusione, dopo oltre 150 anni dalla sua realizzazione quel “segno indelebile” che il Besia ha espresso nell’interpretare il pensiero della famiglia Confalonieri suscita ancora oggi quel “fascino intramontabile ed enigmatico” di allora. L’eclettismo di questa costruzione verrà poi riproposta in altri successivi interventi dell’epoca a carattere “illuminato” quali i villaggi operai di Crespi d’Adda, Villaggio Leuman a Collegno e villaggio operaio di Schio, la Centrale Elettrica Esterle-Bertini di Cornate d’Adda, sino al Ponte di Paderno sul fiume Adda.

L’aia, teatro di avvenimenti storici

Va ricordato però che, oltre all’uso contadino, l’Aia fu teatro anche di altri avvenimenti storici: due i più importanti. All’inizio del Novecento, nei suoi locali si amministrava anche la scuola “Arte del Ferro”, nata e voluta dalla famiglia Gnecchi Ruscone e guidata da esponenti dalle mani esperte della famiglia Cattaneo, residente in paese. Alla scuola, rinomata in tutta Europa, arrivavano studenti di ogni nazione. Era sotto il patrocinio del Re, Vittorio Emanuele III e la prima presentazione dei lavori venne effettuata nella Villa Reale di Monza e alla Fiera di Milano nel 1924. Ancora oggi esiste un catalogo stampato dalla tipografia Campanile di Milano con le fotografie delle opere eseguite dagli allievi: lampadari, tavolini, vasi portafiori, cornici, plafoniere, paraventi e altro. Alcuni manufatti sono stati recuperati dalla famiglia Verderio e gelosamente custoditi presso l’Aia come simbolo a testimonianza dell’alta scuola nella lavorazione artistica del ferro. Il secondo, contrariamente al primo, è stato un avvenimento drammatico accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale. Durante il sanguinoso conflitto che causò 55 milioni di morti, anche Verderio diede il suo contributo. Per saperne di più, abbiamo riletto due articoli pubblicati da Marco Bartesaghi, con le testimonianze dirette degli interessati.

Dall’inizio del 1942 all’ottobre del 1943 abitò a Verderio Superiore, proveniente da Milano, la famiglia Milla, composta da tre sorelle, Laura, Lina, Amelia e un fratello di nome Ferruccio. Nell’ottobre del 1943 tutti vennero arrestati, in quanto ebrei, da militari tedeschi e tradotti in carcere. Il 6 dicembre gli arrestati (ai quali si aggiunse anche il fratello Ugo) furono tradotti ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno. I Milla non furono certamente i soli a subire questo trattamento e tutti sanno che cosa accadde agli ebrei e ai prigionieri di guerra dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Tutto iniziò nel 1938 con l’introduzione delle Leggi Razziali, discriminatorie per taluni cittadini, voluta dal regime fascista. Dal 17 novembre, circa 50.000 persone italiane scoprirono, per il fatto di essere ebrei, di appartenere ad una certa razza e perciò di non poter godere gli stessi diritti e nemmeno gli stessi doveri degli altri cittadini. Non appartenevano alla così detta “Razza Ariana”.

Anche la famiglia Milla, come tutti gli ebrei residenti in Italia, dovette cominciare a preoccuparsi. Non abbiamo delle testimonianze dei signori Milla all’entrata in vigore di queste Leggi Razziali, ma si presume che furono simili a quelle del resto della comunità: incredulità, amarezza e apprensione. Si sa però che per sopravvivere, alcuni di loro furono costretti a nascondersi in diverse città del nord e, altri, a fuggire in Svizzera. E veniamo alla storia nella quale furono coinvolti i Milla. Tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942, lo Scatolificio Ambrosiano, che operava a Sesto San Giovanni, per i continui bombardamenti a cui era sottoposta la zona della fabbrica, trasferì i suoi macchinari a Verderio Superiore prendendo in affitto alcuni edifici di proprietà della famiglia Gnecchi Ruscone, situati all’esterno della villa, dove ora sorge il Centro Sportivo. Al trasferimento aderì la maggioranza dei dipendenti, mentre altri vennero assunti in paese. I locali dell’ala sinistra della Villa Gnecchi, dove prima esistevano magazzini e stalle, furono adibiti ad alloggi. I Milla invece presero possesso dei locali dell’Aia e conducevano una vita abbastanza riservata.

Chi li conobbe, li ricorda come persone affabili e cordiali. Il più conosciuto era Ferruccio, il direttore dello scatolificio, che amava fare passeggiate in paese e fermarsi a chiacchierare con la gente del posto.

I Milla, quando vennero ad abitare a Verderio, pensavano probabilmente che il paese, piccolo e appartato, potesse garantire loro la sicurezza. La sera del 13 ottobre 1943, alcuni soldati si presentarono all’abitazione dei signori Passaquindici, proprietari dello scatolificio e li accusarono di dare lavoro e di nascondere ebrei. Chi diede loro questa informazione certa? Forse, si dice, fu un operaio desideroso di vendicarsi del licenziamento. Sfortunatamente il signor Ferruccio Milla in quel momento si trovava in quella casa e non ebbe difficoltà a dichiararsi ebreo e venne arrestato. La stessa sorte toccò al fratello Ugo, sopraggiunto poco dopo e a Milano, alle altre tre sorelle. I cinque vennero tradotti nelle carceri di Bergamo e, successivamente, in quelle di San Vittore in Milano, dove vennero interrogati dal comando delle SS.

Da quanto risulta dal “Liber Chronicus”, il diario parrocchiale dell’allora parroco don Carlo Greppi, in quei giorni a Verderio arrivarono circa 200 militari tedeschi e vi rimasero fino all’inizio di dicembre: gli ufficiali alloggiarono in Villa Gnecchi, mentre i soldati occuparono l’asilo e l’oratorio.

Lea Milla, non vedendo tornare a notte fonda il marito Ferruccio quella sera del 13 ottobre, diede l’allarme alle cognate che, informate dell’accaduto decisero, per sicurezza, di lasciare la loro abitazione presso l’Aia. La mattina successiva chiamarono la domestica, la signora Ida Sala abitante nella corte della cascina di via dei Prati e le consegnarono le chiavi dell’abitazione pregandola di non dire nulla a nessuno. Questa raccomandazione fu eseguita scrupolosamente dalla signora anche il giorno successivo quando i tedeschi fecero irruzione all’Aia alla ricerca degli altri familiari ebrei. Non trovandoli, svuotarono la casa gettando ogni cosa nel cortile. Le tre sorelle si rifugiarono a Milano e, tramite il cappellano, vennero a conoscenza che i loro due fratelli si trovavano nelle carceri di San Vittore e si misero in contatto. Questa imprudenza costò loro cara e fu la causa dell’individuazione del loro rifugio. Il 21 ottobre vennero arrestate. All’alba del 6 dicembre 1943 furono preparati e portati nei sotterranei della Stazione Centrale e caricati sui vagoni merci, al tristemente binario 21, dal quale partivano i treni della morte.

Al convoglio di carri merci si aggiunsero altri vagoni a Verona e formarono il “convoglio 5”. Di questo convoglio vennero identificati solo 246 prigionieri tra cui 20 bambini nati dopo il 1930. Solo 5 di loro fecero ritorno a casa. Il treno si arrestò allo scalo di Auschwitz la mattina dell’11 dicembre, dopo cinque giorni e cinque notti di un allucinante viaggio. Da allora, dei cinque fratelli non si seppe più nulla. La signora Lea per anni cercò notizie del marito e dei cognati chiedendo informazioni ad associazioni, partiti politici e anche con inserzioni sui giornali. Si rivolse anche a molti reduci e alla fine il suo appello venne raccolto da uno di loro, Enzo Levy, abitante a Torino, che le scrisse una lettera. In essa, il signor Enzo testimoniava che era stato compagno di prigione di tutta la famiglia Milla a San Vittore e che il signor Ferruccio era stato più volte picchiato a sangue durante gli interrogatori e quindi lo aveva visto in condizioni pietose. Tutta la famiglia era partita con lui sul treno dei disperati, compreso Ferruccio, nonostante le sue condizioni, ma dopo il caricamento sul treno, non ebbe più modo di vedere nessuno dei suoi parenti. Finiva qui la storia drammatica della famiglia Milla e anche la più devastante guerra di tutti i tempi.

L’aia dopo la guerra

Dopo la guerra, l’aia tornò ai contadini

Già nel 1946, l’Aia tornò subito all’uso agricolo precedente. I locali, dopo una sistemazione, vennero dati in uso alla famiglia De Bortoli con l’incarico di “custode” e il compito di registrare le richieste e riscuotere l’affitto dei contadini che portavano il grano e altri cereali ad essiccare sull’Aia, aprire e chiudere il cancello d’ingresso ai carri che trasportavano frumento e granoturco. I contadini, durante i mesi estivi portavano i loro sacchi colmi di frumento o granoturco che stendevano su tutta la superficie del grande cortile di granito. Mentre gli uomini tornavano ad occuparsi di altri lavori, alle donne e ai bambini era affidato il compito di “rivoltare” il raccolto di tanto in tanto in modo che l’essiccazione fosse uniforme. Per fare questo lavoro, si usava un rastrello di legno che veniva trainato, avanti e indietro, per tutta la distesa.

I più felici erano i bambini che si divertivano un mondo correndo e saltellando, a piedi scalzi, sulle granaglie distese al sole. Nel tardo pomeriggio, il grano veniva raccolto in mucchi e con delle pale di legno, insaccato, pesato e riportato a casa o venduto sul posto ai grossisti locali. Per l’uso dell’Aia si pagava un affitto: un tanto al quintale. L’unico problema che poteva mettere in allarme il contadino era un improvviso temporale pomeridiano e in questo caso bisognava raccogliere frettolosamente il cereale e riportarlo a casa. Il grano, quando era ben secco e asciutto perdeva di peso, ma in compenso aveva un prezzo superiore a quello venduto umido e questo riequilibrava i conti del contadino.

A causa del sopravvento dell’industria sull’agricoltura, l’Aia cessò la sua attività nel 1962; i pochi contadini rimasti, già in fase di trebbiatura e raccolta del grano e del granoturco, lo vendevano direttamente ai grossisti, ai consorzi o alle aziende specializzate nella fabbricazione dei generi alimentari evitando così la fase di essiccazione. Dopo ben 99 anni l’Aia cessava quindi la sua attività agricola e la stessa famiglia De Bortoli, ormai con i figli grandicelli, cercò una nuova abitazione. L’Aia fu chiusa e gli Gnecchi Ruscone non l’affittarono a nessun’altra famiglia. Iniziò così l’abbandono e il degrado. Con la scomparsa di alcuni patriarchi, le famiglie Gnecchi Ruscone lasciarono anche le residenze del centro paese. Alcune si stabilirono nei paesi vicini dove avevano altri possedimenti, mentre altre ritornarono a Milano.

Anche la bellissima villa padronale, ricca di storia e del ricordo di personaggi importanti, perse i suoi residenti e venne chiusa. Restarono però operanti i custodi e un giardiniere, Luigi Sala, che aveva l’incarico, conferitogli da una nipote (Vittoria) dello scomparso Vittorio Gnecchi, grande musicista di fama mondiale, (“Cassandra”, l’opera più rappresentata) di aprire di tanto in tanto i locali per una boccata d’aria e di provvedere ai lavori del giardino. Alla fine degli anni Sessanta, gli eredi si adoperarono per trovare un’impresa che potesse ricavare nella grande casa diversi appartamenti da vendere. Negli anni Settanta la villa passò quindi a privati cittadini. Nel 1970, la ex Villa Confalonieri, poi Gnecchi Ruscone, venne riconosciuta di interesse storico-artistico con Decreto Ministeriale datato 26 giugno e pertanto sottoposta alla tutela del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali.

Un nuovo acquirente per l’aia

L’Aia, come tutti gli altri beni, vennero divisi tra gli eredi Gnecchi Ruscone e sulle terre vendute ai privati si iniziò a sviluppare un incremento edilizio che portò un cambiamento profondo del paese. Iniziarono a nascere nuovi condomini, villaggi e villette singole e al migliaio di persone che abitavano Verderio se ne aggiunsero, in pochi anni, altre centinaia provenienti dai paesi e dalle città vicine, fino al raddoppio. Nel 1980 i coniugi Adriano Sala e Rina Mottadelli, residenti in Monza, acquistarono la proprietà dell’Aia da Matilde Visconti Di Modrone, vedova Greppi, nipote di Isabella, una delle ultime ereditiere della dinastia Gnecchi Ruscone, ma non venne mai abitata e così si aggravò ancora di più il suo decadimento.

Le cose, inoltre, si complicarono quando nel 1996, con un nuovo Decreto dell’11 giugno, anche l’Aia venne riconosciuta di interesse storico-artistico e sottoposta, come la Villa Gnecchi Ruscone, alla tutela del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali.
Finisce qui la storia della prima parte dell’Aia, tutto quello che successe dopo, la vendita, il restauro, la nuova ala, il museo e la vita contadina, è un’altra avventura che potrete leggere nel prossimo capitolo.

Giulio Oggioni