In Comune di Verderio Superiore, (dal 4 febbraio 2014 con l’unificazione di Inferiore è diventato Verderio) dove la Brianza collinare ha già lasciato il posto alla piana della bassa provincia lecchese, spicca la sagoma dell’immobile denominato “Aia”. L’edificio oggi come ieri non passa inosservato per i particolari originali arabeggianti che catturano l’occhio e stuzzicano la curiosità: come il grosso comignolo ottagonale di rame a forma di bulbo di cipolla, piuttosto strano da queste parti. Fino agli inizi del 2005, il comignolo svettante e il muro di cinta lungo tutto il perimetro erano l’unica cosa realmente visibile. Il resto era nascosto da cespugli di rovi e piante spontanee, vittima di un’incuria che durava da decenni.
Un colpo di fulmine
Per chi crede nei “colpi di fulmine”, fu proprio qualcosa di simile che accadde nel 1991. La Coverd operava a Verderio già da alcuni anni e in paese risiedevano anche i suoi fondatori: Angelo Verderio e la moglie Ornella Carravieri. Alla ricerca di una seconda casa, non era sfuggita loro la bellezza trascurata di quel luogo ameno, fin da quando, avrebbero voluto poterla sistemare e andarci ad abitare. Spinti dal desiderio di realizzare il loro sogno, iniziarono a prendere informazioni sullo stato dell’immobile per poi, successivamente, rintracciare in quel di Monza, gli ultimi proprietari. Non è il caso di soffermarsi sui passaggi di mano, le eredità e i lasciti che l’Aia vide nel corso della sua storia, e passiamo a dire che quel primo tentativo andò a vuoto. Non era in vista alcun progetto di recupero, ma non c’era nemmeno l’intenzione di vendere e gli entusiasmi dei coniugi Verderio si raffreddarono. Invece, mentre cresceva la sensazione che quel rudere nascosto dai rovi, usato anticamente dai contadini del luogo per l’essiccazione e il commercio delle granaglie, avesse una straordinaria e quasi magica affinità con l’attività dell’azienda di famiglia Coverd: la promozione di prodotti naturali – in primis il sughero biondo naturale – per l’isolamento termico e acustico e bioclimatico degli edifici in Bioedilizia e la diffusione delle loro tecnologie applicative.
Le cose cambiarono di nuovo dieci anni più tardi. Nel frattempo i progetti si erano spostati dalla seconda casa, che ormai non era più necessaria, alla sede dei nuovi uffici aziendali – cosa di cui invece c’era bisogno – vista anche la vicinanza con la sede operativa che avrebbe reso più facile le operazioni di trasferimento. Questa nuova prospettiva, unita alla straordinaria opportunità che l’Aia avrebbe dato nel diffondere la conoscenza di un approccio tutto “Italiano” – si potrebbe dire “Verderiese” – alla Bioedilizia, convinse nuovamente la famiglia Verderio nel riproporre l’acquisto. Per molto tempo le chiavi dell’Aia erano state affidate ad un giardiniere con l’incarico di accompagnarvi eventuali compratori e i Verderio tornarono alla carica. Fu l’istinto, più che la ragione, a spingere alla trattativa, sottovalutando un po’ i problemi e le difficoltà. Fatto sta che questa volta l’acquisto andò in porto. Come spesso capita quando si sente raggiunto un obiettivo ambito, l’entusiasmo della caccia lasciò spazio ai grattacapi e la prima volta che i nuovi “quasi” proprietari entrarono nell’Aia – le carte erano ancora tutte da firmare – non ebbero la stessa sensazione di meraviglia che li aveva pervasi tempo prima.
Da una parte dovettero constatare che per fare quello che avevano progettato sarebbe servito acquistare anche un altro pezzo di terra dai vicini (famiglie Cassago e Motta) – ma questi fortunatamente si dissero subito disposti a venderglielo – dall’altra si resero conto che la ristrutturazione li avrebbe impegnati davvero tantissimo. Se non cambiarono idea su due piedi – e poco ci mancò che lo facessero – fu ancora una volta per la determinazione di Ornella. La parte ipogea, cioè quella sotterranea del cortile, fatta di cunicoli resi impraticabili da rovi e piccoli smottamenti, denominata Aia, era sormontata da lastroni di granito di Montorfano. Solo chi aveva frequentato quel luogo da bambino poteva immaginarne la fisionomia e coglierne la dura bellezza, immaginando schiere di lavoranti che affidavano all’azione benefica del vento e del sole le granaglie stendendole umide sulle lastre di granito ad essiccare.
Quel cortile cintato, sorvegliato dalla casa con il comignolo ottagonale a cipolla, era stato un esempio di bioedilizia e bioclimatizzazione contadina – l’unico del genere in tutta la Brianza ed in Europa – e sarebbe stato un ottimo biglietto da visita per Coverd, che da oltre trent’anni fa della Bioedilizia e del Risparmio Energetico il suo “credo”. La “visione” istintiva di come sarebbe potuta diventare l’Aia una volta ripulita e di quel che avrebbe potuto rappresentare confermò la decisione di andare avanti, nonostante le perplessità espresse da un funzionario della Soprintendenza del Ministero per i Beni Ambientali e Architettonici. L’Aia, per il suo valore storico, era infatti soggetta a vincoli molto rigidi e qualsivoglia progetto di recupero avrebbe dovuto sottostare a una lunga trafila di visti e approvazioni, che per giunta avrebbero potuto anche essere negati.
I tempi lunghi e i girotondi della burocrazia sono la cosa più insopportabile per un imprenditore, ma a quel punto si era deciso di ballare e si ballò. Una spinta decisiva, dopo giorni che come detto passarono più a considerare gli ostacoli da superare che a misurarne i vantaggi, arrivò dall’architetto Bruna Galbusera di Vimercate, alla quale la famiglia Verderio aveva già pensato di affidare il progetto di restauro. A sua volta innamoratasi dell’Aia e – da bravo architetto – capace di vedere in una vecchia casa anche quello che agli altri sfugge, si mise subito all’opera e sfornò un progetto così accattivante da fugare anche ogni ultimo dubbio. Sui grandi fogli disegnati a mano libera con dei pastelli colorati spiccavano l’edificio rimesso a nuovo, la parte ipogea ripulita e trasformata in una sorta di percorso museale, il verde del giardino ma anche una nuova costruzione con caratteristiche architettoniche delle antiche serre nobiliari in stile “orangerie” che avrebbe dovuto ospitare i nuovi uffici operativi.
Tuttavia nel disegno tutto appariva armonico ed equilibrato e pareva impossibile che qualsivoglia funzionario avrebbe potuto opporsi a tanta grazia, cosa che di fatto non avvenne salvo piccoli e piccolissimi aggiustamenti. Dopo oltre quarant’anni d’attesa, bastò un mese per fare tutto il necessario. Il compromesso di vendita reca la firma del 31 maggio 2004; un mese più tardi, il 30 giugno per l’esattezza, fu firmato il rogito. A settembre dello stesso anno, acquisita definitivamente la proprietà, si dette inizio ai lavori. Da questo momento in poi, se le cose procedettero spedite, molto dipese dalla fattiva e preziosa collaborazione della Soprintendenza, che vide da subito nel restauro dell’Aia la possibilità di ridare aVerderio e alla collettività un prezioso pezzo della sua storia. Questa porzione, pensata sul lato ovest e nord dell’Aia, era la parte più ostica del progetto e per la Soprintendenza.