Dal febbraio 2007, il museo “Vita Contadina del Novecento” è stato aperto alle visite delle scolaresche, alle associazioni culturali e ad alcuni gruppi di interesse sociale e storico del passato. In questo modo si conserverà un patrimonio culturale per la collettività. Specialmente durante la stagione estiva, il museo è stato visitato da numerose persone non solo di Verderio, ma anche provenienti da paesi più lontani. Piacevole è stata la sorpresa di diversi gruppi di anziani che, con grande entusiasmo, hanno commentato tra loro ogni oggetto esposto, ricordo della loro vita contadina durante la quale ne hanno fatto largo uso. Le scolaresche di Verderio, con gli insegnanti, hanno completato il loro cammino esplorativo sulla vita contadina che è servito anche per una interessante pubblicazione.

Non sono mancate, sempre in estate, anche rappresentazioni teatrali e musicali che, non solo hanno valorizzato l’Aia, ma hanno riscontrato enorme gradimento da parte della gente accorsa, anche per la grande curiosità di rivedere un vecchio edificio del passato restaurato e per rivivere quei luoghi familiari della loro gioventù. Con la Soprintendenza si è concordato che l’Aia sia aperta alle visite di cittadini e associazioni ogni primo lunedì del mese. Inoltre, è stata inserita nel programma “Sistema Museale” della provincia di Lecco e fa parte del programma “Ville Aperte in Brianza” della provincia di Monza Brianza.

Una serata contadina di qualche secolo fa

Il museo e l’Aia sono stati protagonisti e teatro di eventi che hanno vivificato momenti di cultura nel nostro paese, ma la rappresentazione più spettacolare è avvenuta il 18 giugno 2010 con una serata dedicata alla vita contadina con il Gruppo Folcloristico Firlinfeu “La Brianzola” di Olgiate Molgora, un complesso di una quarantina di persone tra musicanti, attori e ballerini, giovani e anziani, che indossavano splendidi costumi contadini di qualche secolo fa, alla “Renzo e Lucia”. Lo spettacolo è coinciso con il 150° anno della fondazione del Gruppo, per celebrare il quale hanno sfoderato tutto il loro repertorio, ripercorrendo il periodo storico e le usanze tipiche del territorio del secolo prima della costruzione dell’Aia. Questo gruppo folcloristico, in questi anni, è stato richiesto e apprezzato in tutta Europa, per rappresentazioni singole e anche per Festival storici con altri gruppi della medesima caratteristica. La loro esecuzione, tra musiche e scenografie sapientemente ambientate, ha scatenato numerosi applausi a scena aperta, in una serata tiepida e serena, dopo una settimana di freddo e acqua che paventava la sospensione dello spettacolo.

Domenica 30 giugno 2013, grazie alla sponsorizzazione della Provincia di Lecco, nel pomeriggio si è vista una larghissima partecipazione di persone alla visita del museo, mentre di sera si è tenuto un concerto di musica classica dell’Eccetera Saxophone Quartet del Festival di Bellagio e del Lago di Como, che ha suscitato grande emozione per il suono e il contesto suggestivo. Il museo e l’Aia, grazie alla famiglia Verderio, rimangono a disposizione per altre visite e spettacoli per rinnovare e ricordare, con grande nostalgia, le nostre origini contadine, e nel contempo farsi promotore di cultura. A conclusione di questo nuovo libro che riporta altre pagine di storia di Verderio e in ricordo dei contadini che sono passati in questo luogo, riteniamo utile ricordare, brevemente, la vita contadina di allora e raccontare anche come sono nate le cascine e con quali caratteristiche venivano costruite.

C’era una volta la cascina

Le origini delle cascine a corte risalgono addirittura al X secolo (900-1000 circa), ma la loro maggiore diffusione avvenne tra l’inizio del 1700 e la fine del 1800. La cascina era una struttura agricola delle zone pianeggianti del nord Italia, soprattutto quella lombarda e solo in parte anche quella piemontese ed emiliana. In Lombardia la maggioranza delle cascine si trova nel pavese, accanto a corsi d’acqua, indispensabili per la coltivazione del riso, nelle verdi campagne del bergamasco, del comasco e del varesotto, idonee per la coltivazione del frumento e del granoturco. In particolare, all’inizio dell’Ottocento, nella verde Brianza, fu uno “sbocciare” di belle cascine volute da famiglie nobili milanesi che avevano scelto questo territorio per le loro vacanze, costruendo, nei posti migliori e ben in vista, superbe ville padronali. Nei loro possedimenti, non avevano problemi ad investire ingenti somme per la costruzione di queste cascine che poi assegnavano a famiglie contadine.

Del nostro territorio, perdutamente innamorato, ne parla anche Stendhal (pseudonimo di Henri-Marie Beyle, 1783-1842), scrittore francese che, arrivato a Milano con le truppe napoleoniche, decise di viverci. Nel suo “Diario del viaggio in Brianza”, dell’agosto 1818, così la descriveva:

“…una pianura fertile… di una bellezza impressionante, ma rassicurante come l’architettura greca”.

In prevalenza, la pianta di una cascina era quasi sempre a forma quadrangolare, con al suo centro una corte attorno alla quale si trovavano i vari edifici: stalle, fienili, granai, magazzini per gli attrezzi agricoli, forni, pozzi per l’acqua, servizi igienici comuni e, infine, le abitazioni. A secondo delle necessità e del territorio a disposizione, oltre a quella appena descritta la cascina poteva avere anche altre tre diverse tipologie: a “corte aperta”, cioè con un lato aperto e senza muri di cinta, a “edifici affiancati o separati”, talvolta senza la corte, oppure a “corpo unico o colonico”, cioè consistente in un solo edificio e di ridotto volume. Il numero dei nuclei familiari in essa, variava a secondo della grandezza della cascina e dei terreni agricoli attorno da lavorare e andavano da un minimo di quattro alla dozzina circa, tanto da raggiungere anche più di un centinaio di persone per cascina. La cascina era fatta costruire da un proprietario facoltoso, ma veniva affidata ad un fattore o anche a un fittavolo, cioè persone competenti che la amministravano, la controllavano e ne rendevano conto alla proprietà: nulla poteva essere fatto dal contadino senza la sua autorizzazione, pena l’allontanamento e la perdita di ogni diritto. A sua volta, questo amministratore, impegnato su più fronti, si avvaleva di un sorvegliante salariato, che in dialetto era chiamato “campée”. I contratti più tradizionali erano quelli della mezzadria che fruttava al padrone un mezzo o un terzo di tutto il raccolto.

Accadeva però che, durante i grandi raccolti estivi, il fattore assumesse temporaneamente altri contadini che venivano da lontano, chiamati bergamini: un esempio lampante era la cascina Bergamina sul territorio, allora, di Verderio Inferiore, costruita nel 1427 dal conte Majnone e poi passata agli Annoni e quindi agli Gnecchi Ruscone. Bergamini erano chiamati quegli uomini che portavano le mandrie a valle e, all’occasione, prestavano la loro opera dove necessitava. Si occupavano del bestiame, della mungitura e del taglio del fieno per le bestie della stalla. Alloggiavano in un locale messo loro a disposizione in cascina e dormivano anche nei fienili. Il loro lavoro iniziava nel mese di maggio e terminava alla fine dell’estate. Attorno alla cascina, oltre alla coltivazione dei cereali, era assai diffusa anche quella dei gelsi le cui foglie nutrivano il baco da seta, i platani, le robinie, che fornivano la legna per il camino e la stufa e i salici, che servivano per la fabbricazione delle gerle e delle scope di saggina. A partire dall’inizio del 1900 tutte le cascine vennero progressivamente abbandonate, soprattutto perché il contadino gradiva i locali più confortevoli dei centri abitati e poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, per l’arrivo dell’industria che favorì l’emigrazione in città, garantendo un salario sicuro e meno impegno lavorativo. Dopo questa spiegazione generale sulle cascine, passiamo ad illustrare più dettagliatamente alcuni particolari della loro composizione sul nostro territorio.

Le cascine di Verderio

Verderio è situato tra il territorio collinare Meratese e l’area pianeggiate del Vimercatese. Fa parte della Bassa Brianza, dove erano presenti soprattutto culture cerealicole, ovvero la rotazione tra grano, mais, foraggio e poche vigne. Sul territorio pianeggiante e agricolo di Verderio vennero costruite ben trentadue cascine. Le più comuni, cioè quella di tipologia quadrangolare, erano composte da due corpi: quello abitativo, sempre al centro e rivolto a sud per sfruttare la luce solare e quello laterale alle abitazioni, riservato alle stalle e ai fienili.
Al centro l’aia, in terra battuta o in acciottolato, serviva per i lavori agricoli, in particolare per la battitura del frumento con la verga, prima dell’avvento della trebbiatrice e per l’essiccazione dei cereali durante la stagione estiva. L’inizio della loro costruzione poco dopo il 1500, è coincisa con l’arrivo delle famiglie milanesi dei conti Ajroldi e Majnone e successivamente dei Confalonieri, Arrigoni, Annoni e Gnecchi Ruscone, per citare i più noti.

Per gli Ajroldi è valido l’esempio della maestosa cascina Airolda che si trova a nord-est del paese, mentre per i Confalonieri è la cascina Salette, già descritta citando il progettista architetto Gaetano Besia, e la cascina Bergamina per i Majnone e Annoni. All’inizio dell’Ottocento, con l’arrivo della lungimirante famiglia Gnecchi Ruscone, è da citare sicuramente la cascina Isabella, costruita tra il 1871 e il 1877, un edificio di grandi dimensioni, a tre piani e con un ampio cortile rivolto a mezzogiorno. Come già accennato, per tutte le cascine di Verderio il piano terra era riservato alle grandi cucine con il camino, mentre nei piani superiori trovavano posto le camere da letto, raggiungibili con ampie scale in muratura e scalini di granito. In queste cascine il contadino sviluppava la sua attività agricola coadiuvato da tutta la famiglia patriarcale composta, talvolta, da più nuclei familiari, con numerosa prole e anche da lavoratori a tempo determinato che venivano da fuori paese.

La vita contadina era semplice e abitudinaria durante tutto l’anno solare: sveglia al sorgere del sole (talvolta anche prima), governo degli animali della stalla e loro mungitura, colazione a base di zuppe con il lardo e il latte appena munto per i bambini, poi i lavori mattutini nei campi, il pranzo di mezzogiorno che consisteva in un minestrone ricco di verdure del proprio orto, quindi i lavori pomeridiani fino a sera e il ritorno in cascina al tramonto per la mungitura e la sistemazione degli animali e, infine, la cena a base di polenta con qualche intingolo di patate o pomodori e, in rari casi, anche un cotechino. A conclusione della giornata, il riposo avveniva, secondo le stagioni, non dopo le nove della sera. C’era un detto di allora che diceva: “Andare a letto con le galline”, proprio per dire che ci si coricava presto. Questo accadeva anche perché non c’era ancora la televisione o altre forme di divertimento serale, ma soprattutto perché il risveglio era all’alba.

L’unica variante di questa vita abitudinaria, avveniva nei mesi invernali durante i quali, per il freddo e la neve, non si poteva lavorare nei campi e il tempo libero i conta-
dini lo passavano nelle calde stalle riparando gli arnesi agricoli. I terreni agricoli erano concessi a mezzadria, cioè metà del raccolto al padrone e l’altra al contadino. Solo dal 1924, vennero stipulati dei contratti di affitto. Ma quali erano questi principali lavori e raccolti agricoli? Brevemente li ricordiamo. Per chi ha già letto l’ultimo libro uscito nel 2013 “Verderio La vita contadina, le corti e le cascine” sarà un ripasso, ma arricchito da nuove fotografie ambientate, avute dagli ultimi appassionati di storia contadina. Sarà invece una piacevole lettura di storia d’altri tempi per chi non ha ancora avuto l’opportunità di conoscere il mondo contadino.

Autunno

In settembre, la raccolta del granoturco

Il “capodanno” del contadino coincideva, come per i ragazzi delle scuole, con l’inizio del mese di settembre, dopo aver trascorso due o tre giorni di riposo all’ultimo solleone di agosto.
In settembre, “setember”, si raccoglievano le pannocchie di granoturco, approfittando delle belle giornate di sole e caldo; per primo veniva recisa la parte superiore della pianta, in particolare le foglie e i fiori, un’operazione detta “pelà giò” e “sciümà”, e questi servivano come foraggio fresco per gli animali. Restavano le piante spoglie con le pannocchie, “loeuv”, a essiccare al sole fino a quando, una volta che le foglie diventavano secche, si aprivano leggermente lasciando intravvedere i primi grani gialli della punta, circondati da una fine barba rosso scura. Le pannocchie venivano poi staccate a una a una dal fusto, “mergasc” e ammonticchiate in alcuni punti del campo e poi, con un carro, portate sotto il porticato delle case o delle stalle. Alla sera, dopo cena, per chi abitava in una cascina, era uno spettacolo assistere alla lunga fila delle famiglie contadine, schierate sotto i porticati, occupate nelle varie fasi di lavorazione delle pannocchie di granoturco.

Vi partecipavano, fino ad una certa ora, anche i bambini che si divertivano a fare le capriole sulle morbide foglie, “scartoss”, che venivano gettate dietro le spalle dai genitori, incuranti che contenessero anche delle camole che potevano entrare nelle orecchie e procurare un danno. Alle pannocchie di granoturco venivano tolte le foglie, tranne due o tre che servivano per legarle fra loro formando dei mazzi che venivano poi appesi ai soffitti del porticato e lasciati a essiccare fino all’inverno. Terminato questo lavoro, si ripuliva il terreno dai fusti del granoturco e si procedeva di nuovo alla concimatura, alla vangatura o all’aratura per preparare la terra alla semina del frumento.Della pianta del granoturco nulla andava perso. I fusti venivano raccolti in fascine e usati per accendere il fuoco del camino, mentre i tutoli, “mulett”, o “burlin”. venivano usati come combustibile nelle stufe delle cucine. I fusti secchi venivano raccolti in fascine per essere utilizzati nel camino come innesco della fiamma per la legna da ardere.

I lavori di ottobre e novembre, prima dell’inverno

Nel mese di ottobre, “utuber”, dopo la vangatura e il rassodamento della terra, per il contadino iniziava il tempo della semina del frumento. I passi del contadino era lenti e cerimoniosi, con un ritmo sempre uguale, che seguiva rigorosamente il gesto ampio e disteso della mano che prendeva il seme dal marsupio e lo lanciava a ventaglio, affinché i chicchi potessero cadere in modo uniforme su tutto il terreno. Solo dopo gli anni della Seconda Guerra Mondiale, in Brianza si passò alla semina del grano con una macchina appositamente ideata e trainata dagli animali. Sempre prima dell’inverno, si potavano i lunghi rami dei salici che venivano usati per legare la saggina o la meliga e che servivano per confezionare scope, cesti e gerle.

Con novembre, “nuvember”, arrivavano le prime giornate di nebbia, che coincidevano con la settimana dei morti e segnavano l’inizio dei lavori manuali che si protraevano per tutto il freddo inverno, quasi sempre nelle calde stalle. La principale attività del “regiù”, capofamiglia, era la sgranatura delle pannocchie di granoturco, che consisteva nel fregarle su una tavola di legno con spuntoni di chiodi chiamata “gratiroeula”. Dal granoturco macinato si ricavavano due tipi di farina: la prima, quella più grossa veniva mescolata con acqua calda e altre farine e data agli animali, “panell”, mentre la seconda, che veniva dal cuore del chicco, serviva per la polenta. Il granoturco frantumato grossolanamente era destinato anche agli animali da cortile.

Inverno

Dicembre, il mese del gelo

Alle prime brinate di dicembre, “dicember”, che precedevano le grandi nevicate e gelate, le famiglie si raccoglievano nelle stalle. Ciò permetteva di risparmiare il consumo della legna, ma soprattutto di stare uniti al caldo tepore emanato dalle bestie. Gli uomini, durante i tre mesi invernali, si dedicavano alla riparazione degli attrezzi agricoli, mentre la “regiùra” e le donne più anziane si dedicavano ai lavori di rammendo della biancheria, specialmente le maglie e le calze di lana necessarie per il lungo inverno. Per ingannare il tempo, in stalla non mancavano i giochi di società, come quello della tombola e delle carte ai quali partecipavano tutti, dagli uomini alle donne, ai bambini. Il gioco delle carte più comune era la “pepa tencia”, ovvero la donna di picche, che si poteva pescare dalle carte di un concorrente.

Quando si pescavano carte simili a quelle che si tenevano in mano, ambedue si scartavano. Perdeva naturalmente chi restava con una sola carta, la donna di picche che non poteva essere accoppiata con nessuna altra donna del mazzo. I bambini giocavano a “robamaset”, che consisteva nel rubare le carte degli avversari, sempre scoperte, che avevano la stessa figura o numerazione. Vinceva chi aveva, alla fine, il mazzo più consistente. In giornata si provvedeva alla concimazione del terreno con il letame degli animali che, conservato all’interno della cascina, veniva trasportato con un carro speciale, “bunza”, o una carriola, “careta”, ed equamente distribuito con un forcone a quattro denti sui terreni prossimi alla vangatura.

Gennaio, il mese del gelo e della neve

Il primo mese dell’anno, “ginée” o anche “genar”, era caratterizzato soprattutto da due fenomeni climatici: cielo sereno con forti gelate o abbondanti nevicate che coprivano tetti e campi, come un lenzuolo bianco. Il gelo, di notte, raggiungeva anche i dieci gradi sotto zero, mentre i raggi del sole giornaliero alzavano di qualche grado la temperatura e permettevano all’acqua di gocciolare dalle grondaie dei tetti. Ma appena calava il sole, queste gocce, gelando e sovrapponendosi, formavano un ghiacciolo lungo anche più di mezzo metro. Ai contadini non dispiacevano il gelo e la neve perché, secondo loro, eliminavano gli insetti nocivi delle piante da frutto permettendo alla pianta di fiorire copiosamente in primavera e di dare, in estate, frutti sani. Con la neve alta, il primo lavoro del contadino era quello di spalarla attorno all’uscio di casa, creando un sentiero per raggiungere le stalle. Naturalmente il lavoro era tutto manuale, compresa la spalatura delle strade che si faceva con un marchingegno di legno del quale il nome dialettale era, “calada”, spazzaneve. Era trainato dai cavalli e il lavoro iniziava al mattino presto, appena si faceva chiaro.

Il contadino, per tornare al nostro tema, in queste giornate di gelo e neve, si chiudeva in stalla e preparava gli arnesi per i lavori dei campi. Costruiva le stie per le galline, “gabii di gaen”, da portare in campagna; coi salici formava le gerle, “gerlu”, aggiustava i rastrelli di legno, “restel de legn”, che servivano per la raccolta del fieno; cambiava i manici alle zappe, ai forconi, alle falci e a tanti altri arnesi. Appuntivano le vanghe che, non appena si scioglieva la neve, servivano subito per preparare la terra soffice alla semina di primavera. Una curiosità: gli ultimi tre giorni di gennaio, 29, 30 e 31, erano chiamati, dal contadino, “i giorni della merla”, “i dì de la merla”. Erano i più freddi dell’anno e ancora oggi ricordano una vecchia leggenda che ebbe per protagonista una merla bianca. Si racconta che, infreddolita per il grande gelo, con i suoi piccini si rifugiò sul tetto, in una intercapedine di un camino fumante. Il fumo sprigionato imbrattò le penne bianche della merla e dei suoi piccini che diventarono nere e così rimasero per sempre.

In inverno, la festa contadina per l’uccisione del maiale

Ma prima della fine dell’inverno capitava un grande avvenimento sul quale si concentrava l’attenzione di tutta la famiglia contadina: l’uccisione del maiale, “mazàa ul purcell”. Ogni componente della famiglia aveva il suo compito. Quello dei ragazzi era di sorvegliare l’acqua messa a bollire nella “culdera”, una grossa pignatta di rame posta sul camino ancora prima dello spuntare delle luci dell’alba. L’acqua bollente serviva per scotennare il maiale e disinfettare le interiora, che servivano per insaccare la carne in vari tipi di salami e in mortadelle. Il fuoco, sotto il grosso pentolone di rame con l’acqua posto sul camino, veniva alimentato con la legna, in particolare robinie, mentre gli uomini iniziavano il lavoro di preparazione attorno al maiale. Il povero maiale veniva uncinato alle gambe e al muso e trainato al “patibolo” tra gemiti strazianti, forse consapevole dell’imminente tragica fine. Era veramente una barbarie giustificata solo dal fatto che la sua immolazione consentiva una sopravvivenza decente a tutta la famiglia per l’intero anno.

Il maiale, legato e uncinato, veniva trainato fino al luogo dell’uccisione, poi, con una carrucola issato verticalmente con la testa in giù. Una lunga e affilata lama gli trafiggeva la corposa gola e il sangue, che sgorgava copioso, veniva raccolto in una bacinella sottostante. Fatto bollire e cucinato con le verze era un alimento prelibato per i giorni successivi. Sdraiato sul pavimento, si versava l’acqua bollente sulla sua cute per permettere un facile scotennamento. Squartato, il maiale veniva diviso in più parti. La carne polposa, lavorata con spezie, aceto, vino e altre sostanze, serviva per insaccare salami, salamini, bocce e mortadelle, “salom, salamitt, boc e murtadèla”, mentre la schiena di maiale veniva salata e stesa a riposare su un asse almeno per circa due mesi. Dalla parte più grassa si otteneva il lardo, “lard”, condimento indispensabile per tutta la cucina. Dalla poca carne che rimaneva attaccata all’osso si ottenevano le costine da cucinare con le verze e la polenta, “custen, vers e pulenta”, un piatto tradizionale consumato ancora oggi nelle nostre zone brianzole chiamato “casoeula”.

Il lavoro, iniziato all’alba, terminava al tramonto con una breve interruzione a mezzogiorno per una “tasina de minestra”, una scodella di minestra calda e un secondo a base di sangue bollito con le verze, il tutto annaffiato da qualche bicchiere di vino rosso. I salami, tenuti insieme da sottili cordicelle bianche, venivano appesi alle travi del soffitto di un locale, che non fosse troppo caldo, ma neppure troppo freddo, per lasciarli asciugare del grasso che contenevano e per farli stagionare bene, “stagiunàa”. L’odore dei salami appesi in camera, impregnava tutta la stanza e ci si addormentava pregustando il giorno in cui si sarebbero assaggiati. Il maiale era la principale risorsa del contadino, con il suo lardo per il condimento, i salami e le costine.

La colazione del contadino, come già detto, era semplice: zuppa, “pumiàa”, con il lardo e il pane raffermo o la polenta avanzata al mattino, il latte appena munto per i bambini. A mezzogiorno era di rigore il minestrone con le verdure del proprio orto e i più fortunati si potevano permettere anche il “secondo”, che consisteva in una fetta di stracchino. Alla sera un piatto unico: la polenta e un intingolo di patate o pomodori e, qualche volta, un cotechino. Il tutto annaffiato da qualche bicchiere di vino locale chiamato “pincianell”, che metteva allegria per il suo sapore un poco acerbo e vivace. Ad ogni pasto, il pane giallo, perché quello bianco era una prelibatezza solo per il giorno di Natale.

Febbraio, iniziavano i primi lavori dei campi

E arrivava il mese di febbraio, “febrée” o anche “febrar”. Se il tempo lo permetteva, i contadini iniziavano a occuparsi dei lavori dei campi che seguivano un andamento piuttosto preciso durante tutto il corso dell’anno solare. Il primo lavoro era quello di vangare, “vangàa”, la terra. I contadini diffidavano del mese di febbraio perché, pur essendo più corto degli altri, talvolta era molto freddo, mettendo a rischio la fioritura delle piante da frutto. I contadini ripetevano: “Suta la nev, gh’è ul pòn”, “Sotto la neve c’è il pane”. E la mente correva al pane caldo appena sfornato. Il pane era di due tipi: quello di grano, bianco, che si mangiava solo nella festa di Natale e quello giallo, “pon giald”, fatto di farina di segale e granoturco, che si consumava tutti i giorni, ma che si preparava una sola volta per tutta la settimana. Aveva la forma di una grossa pagnotta circolare, giallo ocra all’interno e marrone nella crosta.

Febbraio portava l’allungamento di un’ora di sole pomeridiano e quindi più tempo da dedicare all’inizio dei lavori dei campi. Si cominciava con il concimare i campi per preparare la semina del granoturco. Il concime naturale erano lo sterco degli animali della stalla e i liquami dei servizi igienici comuni. Lo sterco veniva trasportato in campagna con i carri trainati dai cavalli o dagli asini. Chi non li aveva usava una robusta carriola di legno. Con un forcone, “furcon”, a quattro denti, il letame veniva sparso sul terreno in modo uniforme. La prima pioggia primaverile, permetteva al concime animale di sciogliersi, filtrare nel terreno e incrementare la sua fertilità. Ai primi tepori del giorno, la neve si scioglieva e si provvedeva alla zappatura dei campi di frumento, estirpando dai solchi le erbe che impedivano la sua crescita.

In giornata, nelle ore più calde, si potavano le piante da frutto: albicocche, prugne, pesche, pere e mele, “mugnacc, brügn, persec, per e pòm” e tante altre ancora. L’abilità del contadino consisteva nel riconoscere le gemme da frutto e quelle da fiore in modo da tagliare correttamente i rami superflui e selvatici cresciuti durante l’estate e l’autunno. Poi, iniziava la vangatura, un lavoro duro, lento e cerimonioso, da farsi sempre con gli stessi tempi e movimenti e la vanga, “vonga”, era il simbolo per eccellenza della grande fatica del contadino. Si vangava due volte all’anno: in primavera per la semina del granoturco e in autunno per quella del frumento. Fortunate erano le famiglie numerose che avevano molte braccia, cioè più uomini, per la vangatura e per questo motivo si desideravano maggiormente le nascite maschili.

Vangare era un’arte e non tutti erano considerati abili vangatori. Bisognava incidere profondamente nel terreno per portare in superficie le erbe infestanti con le radici affinché l’ultimo gelo le bruciasse e le facesse marcire. E dopo l’aratura, con l’aiuto degli animali si provvedeva all’erpicatura delle grosse zolle con “l’erpes” o “rampeghéen”, un arnese di legno o ferro a forma quadrata o triangolare, con diversi uncini di ferro, che avevano il compito di spaccare le dure zolle e rendere la terra più friabile e pronta ad accogliere le semine, nei mesi successivi.

Primavera

A marzo sbocciavano i gelsi e la primavera

Nel mese di marzo, “mars”, si potavano i gelsi, “muròn”, le cui foglie erano il principale alimento dei bachi da seta e degli animali della stalla. I nostri campi erano pieni di gelsi disposti a filari. A fine mese, o la massimo ai primi giorni del mese successivo se il tempo era inclemente, si piantavano le patate che erano considerate il “secondo piatto” per la famiglia contadina. La piantagione era più o meno vasta a secondo dei componenti della famiglia. In questo mese, iniziava anche l’allevamento del baco da seta. In primavera, nelle case contadine della nostra Brianza, si coltivava il baco da seta, “cavalée”. Il baco fu importato, dalla Cina in Europa, da Marco Polo (1254-1324) ed il segreto della seta era questo piccolissimo animaletto, ma grande imprenditore che, come macchinari per la produzione, usava solo la sua bocca.

Il baco, detto anche bombice, nasceva dalle uova della falena, una grossa farfalla, che ne deponeva a centinaia. Appena nati, iniziavano a mangiare le foglie di gelso, giorno e notte e, nel giro di sei settimane, diventavano grandi e decidevano di salire sui rami, “andare al bosco” si diceva, preparati dal contadino, per fabbricarsi una casa: il bozzolo, la “galeta”. Per costruirlo, usava la sua stessa saliva che, a contatto con l’aria, si solidificava formando un filo leggerissimo. I piccoli bachi si avvolgevano di questo filo fino a costruire un bozzolo ovale. A metà giugno, i contadini raccoglievano i bozzoli maturi e li vendevano agli imprenditori della seta. Dopo la vendita iniziava una lunga lavorazione che partiva dall’immersione in acqua bollente dei bozzoli e poi l’asciugatura e la filatura. Ogni bozzolo poteva sviluppare un filo anche di un migliaio di metri.

In Brianza c’erano molte filande che lavoravano la seta, con la maggioranza di personale femminile. Le ragazze trovavano alloggio in fabbrica per tutta la settimana. Mangiavano e dormivano in grandi camerate, allestite con tanti materassi di foglie secche di granoturco, uno vicino all’altro. Facevano ritorno al paese solo alla domenica. C’era lavoro per tutte le ragazze, anche per quelle che arrivavano inesperte, appena terminata la scuola elementare. Per l’allevamento di questo piccolo animaletto traslocava tutta la famiglia contadina costretta a sgombrare i pochi locali a disposizione per far posto ai bachi.

I mobili, i letti e tutto quanto ingombrava in casa, veniva accatastato sotto i porticati. Alla sera si andava a dormire nei fienili delle cascine. L’allevamento era un lavoro che durava fino alla metà di giugno, quando si raccoglievano i bozzoli. Talvolta e per diversi motivi, il baco si ammalava e quindi la raccolta era scarsa. In questo caso, per la famiglia era la fame. Al contrario, un buon raccolto allargava i cordoni della borsa con vantaggi per tutta la famiglia.

Ad aprile, la semina del granoturco e la preparazione dell’orto

Appena la temperatura tendeva a salire verso i dodici-venti gradi, talvolta anche verso la fine di marzo o, al massimo, all’inizio di aprile, “april”, si seminava il granoturco, “furmentòn”. Bisognava attendere che il terreno fosse ben sgelato, asciutto e soffice, per rendere meno faticoso il lavoro al seminatore. Il contadino procedeva quasi a carponi, seguendo i solchi di un grande rastrello, “restelòn”, dai tre denti di legno, distanziati tra loro di una quarantina di centimetri, conficcava con il “ficòn”, cavicchio (piolo aguzzo di legno), i semi nel terreno, che teneva in una sacca legata alla vita, alla profondità di una dozzina di centimetri. Alla sera, alla fine del duro lavoro, era frequente che il contadino avesse il mal di schiena, ma dopo il riposo della notte, tutto passava d’incanto e il lavoro riprendeva il giorno successivo, fino al termine della semina. Dopo la Seconda Guerra Mondiale subentrò una speciale macchina con serbatoi per i semi, che, trainata sempre da asini o cavalli, permetteva di seminare il granoturco contemporaneamente a quattro file e con poca fatica per il contadino. Le prime piogge leggere di primavera, ricche di minerali, erano il migliore concime per il granoturco, un cereale che amava, per tutto il periodo della lavorazione, l’umidità e il fresco.

In aprile il contadino si dedicava all’orto procedendo alle prime semine che richiedevano estrema competenza. Bisognava seminare quando la luna era calante e mai crescente. Dicevano che quando la luna era in forza, cioè piena, talune semine, in particolare l’insalata, andavano in semenza dopo il primo taglio e quindi non era più possibile usufruire della nuova crescita e dei tagli successivi. Tutte queste regole erano scrupolosamente seguite dal contadino. Nell’orto si seminava di tutto: insalata, piselli, cipolle, erbette, fagioli, zucchine, carote, spinaci, “insalata, piseli, scigòll, erbett, fasoeu, süchèt, carotul, spinac” e tante altre speci. A fine mese si trapiantavano le piantine di pomodoro, precedentemente coltivate in serre o in luoghi caldi della stalla. Anche per i pomodori si usava la stessa premura delle patate: si rincalzava la terra attorno alla pianta e si creavano canaletti per l’acqua tra i filari. I pomodori, con le patate, erano i due alimenti essenziali della tavola contadina brianzola. Serviti con la polenta erano il “piatto unico” di ogni famiglia.

In primavera era importante anche seminare la “melga”, melica, perché, dopo la sua raccolta e battitura, con una verga di legno per la separazione dei chicchi, gli arbusti servivano per la fabbricazione artigianale delle scope. Invece, con i chicchi di meliga si faceva anche un tipo di pane e si preparavano alcuni dolci prelibati per la famiglia, in particolare per i bambini, ma si davano anche agli animali ruspanti. In aprile, il contadino tagliava anche il ravizzone, “rüisción”, un’erba speciale, molto gradita dagli animali della stalla; la sua coltivazione diventava molto appariscente durante la fioritura, quando si trasformava in una grande distesa di colore giallo intenso e vivo. Con i piccoli semi del fiore, si poteva ricavare anche un olio, simile a quello di colza, utile in cucina.

Era anche il mese della fioritura di tante piante da frutto: l’albicocca, il pesco, la pugna e qualche giorno dopo anche il ciliegio. La fioritura di queste piante era uno spettacolo! Per eliminare gli insetti che potessero intaccare il frutto, i contadini pennellavano sui tronchi un impasto bianco di calce e acqua. Le corti si riempivano di animali ruspanti in cerca di cibo, come le galline, le anatre, i tacchini e tanti altri che circolavano in libertà, pronti per essere sacrificati nelle feste di Pasqua. Era il ritorno alla vita all’aperto della famiglia contadina che coincideva anche con l’arrivo delle rondini che tornavano dall’Africa per nidificare sotto le travi del porticato.

A maggio, i prati in fiore e il primo taglio del fieno

Veniva portato a casa il giorno seguente, quando era ben secco, e messo nei fienili. In inverno era il principale alimento degli animali della stalla. Secondo le tradizioni contadine vedere un carro di fieno, “careten de fen”, era per le ragazze, “tuson”, di buon auspicio e di sicura felicità futura. E, per ultimo, in maggio spuntavano le piantine di granoturco e bisognava zappare il terreno attorno per liberarle dalle erbe infestanti, poi, mano mano che crescevano si rimborsava la terra, “regulsàa”, per mantenere l’umidità alle radici, indispensabile per la crescita. A maggio, “macc”, c’era anche il primo taglio dell’erba da prato che, lasciata a essiccare per un paio di giorni, diventava fieno per le bestie della stalla. Una faticaccia che il “paison”, contadino, faceva tre volte all’anno: in maggio, in agosto e all’inizio di settembre. Per tagliare il prato si usava la “ronza”, falce. Un arnese dal lungo manico di legno: una mano serrava la parte terminale, mentre l’altra teneva un’impugnatura a metà manico. La lama era lunga e molto tagliente e veniva affilata con la cote, “cùd”, una pietra dura calcare grigio-nera che veniva tenuta in una custodia chiamata “cudée”, appesa alla cinghia dei pantaloni, sul “cü”, sedere del contadino.

Il pomeriggio era riservato al rivoltamento del fieno per una essiccazione uniforme, mentre al tramonto si procedeva alla raccolta in mucchi per evitare che la rugiada notturna o un imprevisto acquazzone lo bagnasse e quindi lo facesse marcire. Veniva portato a casa il giorno seguente, quando era ben secco, e messo nei fienili. In inverno era il principale alimento degli animali della stalla. Secondo le tradizioni contadine vedere un carro di fieno, “careten de fen”, era per le ragazze, “tuson”, di buon auspicio e di sicura felicità futura. E, per ultimo, in maggio spuntavano le piantine di granoturco e bisognava zappare il terreno attorno per liberarle dalle erbe infestanti, poi, mano mano che crescevano si rimborsava la terra, “regulsàa”, per mantenere l’umidità alle radici, indispensabile per la crescita.

Estate

A giugno, la grande mietitura del grano

In questo mese il grano, “furment”, cresceva a vista d’occhio e le spighe si indoravano. Tra di esse crescevano indisturbati anche dei bellissimi papaveri rossi che ondeggiavano al vento. In giugno, “giügn”, il lavoro più importante era l’inizio della mietitura del grano, “segàa ul furment”, e tutte le operazioni che ne derivavano. Dipendeva dall’andamento della stagione: nel caso fosse stata fredda e piovosa la spiga del grano maturava qualche giorno più tardi, diversamente, per la metà del mese iniziava la falciatura e per la festa dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno, il lavoro era quasi sempre terminato. Tutta la famiglia partecipava a questo lavoro, occorreva un “culp de mon”, bambini e donne comprese. Si iniziava al mattino presto, prima ancora che il sole spuntasse e iniziasse a scaldare l’aria. Le fresche ore del mattino rendevano molto di più di quelle di mezzogiorno, quando il sole picchiava forte sopra la testa tanto da doverla riparare con un cappello di paglia e la temperatura rendeva l’aria irrespirabile. Il frumento, tagliato a pochi centimetri da terra con un falcetto, “scighess”, o anche “mesüra”, veniva raccolto successivamente in covoni, “coeuv”.

Il lavoro del contadino continuava fino al tramonto, interrotto brevemente da una piccola pausa a mezzogiorno per “ul disnà fàa da la regiùra”, il mangiare fatto dalla massaia, solitamente un minestrone. Il contadino non aveva l’orologio e quindi si regolava con il tocco della campana della chiesa. Gli uomini non disdegnavano di bere un bicchiere di vino, mentre le donne e i bambini preferivano l’acqua del “pestòn”, una piccola damigiana da due o anche cinque litri contenente acqua fresca corretta con il succo di un paio di limoni. Terminato il pranzo, si riprendeva il lavoro sotto il solleone. Alla sera, i ragazzi e le donne raccoglievano i covoni in mucchi, mentre gli uomini provvedevano ad accatastarli uno sopra l’altro, a croce, tenendo al centro sempre la parte delle spighe. L’ultimo covone faceva da cappello a tutto il mucchio che chiamavano “scafèta”, allo scopo di impedire al temporale estivo, sempre frequente e improvviso nel pomeriggio, di bagnare le spighe ed evitare l’ammuffimento.

In questa posizione i mucchi di grano venivano lasciati qualche giorno a essiccare, prima di portarli sull’aia. Si andava a casa alla sera con numerosi lividi sulle gambe a causa della paglia dei covoni che sfregava sulle caviglie e per colpa dei “sfilciòn”, cioè della parte della paglia tagliata che restava nel terreno per alcuni centimetri e che, per la sua durezza, dava come la sensazione di camminare su spuntoni di vetro. Era necessario pertanto, appena arrivati a casa e prima della cena, fare un accurato pediluvio di acqua fresca che mitigava il bruciore e permetteva, il giorno seguente, di riprendere il lavoro senza conseguenze. Questi lavori, come già accennato, duravano una quindicina di giorni. Per falciare il grano e formare i covoni, era un continuo abbassarsi e alzarsi della schiena e questo può dare l’idea di quanta fosse la fatica dei poveri contadini e la loro stanchezza al rientro a casa alla sera.

In questo periodo, il parroco del paese, previa autorizzazione della Curia, acconsentiva di lavorare anche nei giorni festivi. La motivazione era semplice: la maturazione veloce del grano sotto il solleone non poteva aspettare, pena la caduta dei chicchi dalla spiga che finivano a terra. In questo caso il danno economico per la famiglia sarebbe stato evidente e le conseguenze ricadevano anche sulla Chiesa. Infatti, era usanza, al termine di ogni estate, fare un’offerta, in grano, alla parrocchia. Più il raccolto era abbondante, più generoso era il dono del contadino.

A luglio, i grandi polveroni della trebbiatura

Alla mietitura seguiva la trebbiatura, sempre sotto il sole cocente, nel mese di luglio, “loeui”. Nelle corti o nelle cascine, venivano accatastati i covoni in attesa della trebbiatrice. Nelle grandi cascine, il grano era raccolto sull’aia, in dialetto “era”, in enormi cataste, “paiée” o “meda”, a forma quadrata, ma soprattutto rotonda che, giro dopo giro, si restringeva sempre più, fino a finire a punta. Erano alte anche una diecina di metri. Dopo qualche giorno di grande attesa arrivava la “machina de batt”, la trebbiatrice, tra l’esultanza dei bambini e la felicità della famiglia contadina che li ripagava dei mesi di lavoro e dava la possibilità di guadagnare qualche lira con la vendita del raccolto e provvedere così ai bisogni di tutta la famiglia. La trebbiatrice era composta da tre parti. La prima, quella più voluminosa, era il corpo centrale dove, in una bocca della parte superiore, si infilavano i covoni negli ingranaggi che provvedevano a dividere la paglia dai chicchi di grano che uscivano dalle boccature della parte posteriore bassa per essere insaccati. La paglia usciva da una grossa bocca anteriore.

La seconda parte, sul davanti, raccoglieva la paglia tritata espulsa e la imballava. I contadini chiamavano questa parte “majoch”, mangiatore, proprio perché era composta da una possente sagoma di ferro a forma di grande bocca che si alzava e abbassava come volesse mangiarsi tutta la paglia. In realtà, abbassandosi pigiava la paglia che veniva imballata e legata con il filo di ferro. La terza parte era un trattore posto nella parte posteriore, a qualche metro di distanza, che attraverso una grossa cinghia collegava le altre due componenti e faceva funzionare tutto l’apparato. La trebbiatura era uno dei lavori più pesanti per il contadino e doveva essere fatto in pochi giorni e per questo necessitava dell’aiuto dei parenti e di tutte le famiglie del vicinato, in tutti i loro componenti. Ai ragazzi era affidato il compito di salire sulle cataste per gettare i covoni alla persona che doveva infilarli nella bocca che dava inizio al processo di separazione del grano dalla paglia. Per questo lavoro si usava un forcone o, per fare più in fretta, anche le mani.

Un paio di contadini stavano nella parte posteriore della trebbiatrice per raccogliere il grano nei sacchi, legarli e portarli sotto il portico della famiglia. Per trasportare i sacchi, “sacc de furment”, quasi sempre sul quintale, occorreva la forza degli uomini più giovani che se li caricavano sulle spalle. Il lavoro più pericoloso era quello degli uomini addetti al trasporto delle balle di paglia che venivano accatastate sui soppalchi delle cascine, raggiungibili con scale a pioli di legno. Si doveva salire con una sola mano essendo la seconda impegnata a tenere in equilibrio la balla di paglia. Durante i lavori delle trebbiatura, le donne andavano avanti e indietro per portare i fiaschi dell’acqua da bere sempre con la spremuta di limone. Il pranzo fugace di mezzogiorno si consumava sul posto di lavoro evitando di bere il vino che poteva procurare annebbiamento alla vista. L’acqua, più che il vino, era indispensabile in questi lavori perché c’erano sempre grandi polveroni che seccavano enormemente la gola. Per ripararsi alcuni uomini si proteggevano il volto con un fazzolettone e la testa con un cappello di paglia.

Erano giorni di grande fatica ma anche di grandissima soddisfazione. Il grano venduto era una delle poche risorse economiche sulle quali la famiglia poteva fare affidamento per programmare le spese dell’anno seguente. Capitava però che non sempre la raccolta del grano fosse abbondante. Talvolta, il brutto tempo dei mesi precedenti, un ventoso temporale che gettava a terra il frumento bloccando la crescita, la poca maturazione della spiga o malattie strane, causavano una scarsa raccolta che il contadino misurava in “tanti quintali di grano alla pertica”. In caso di una raccolta scarsa, veniva logico rivedere gli investimenti successivi della famiglia eliminando le spese superflue. Il lavoro della trebbiatura finiva sempre verso la fine di luglio poi il contadino si prendeva qualche giorno di calma per riorganizzare la sistemazione dei sacchi di frumento sotto il porticato, pulire l’aia dai residui della trebbiatura e sistemare le balle di paglia.

A fine agosto si raccoglievano le patate

Dopo ferragosto c’era il taglio della “stubia”, stoppia, ovvero i cespi di paglia ed erba cresciuti dopo la mietitura del frumento. Prima di portarla in cascina veniva sempre lasciata a essiccare qualche giorno all’ultimo sole agostano. Alternata al fieno, era l’alimentazione invernale degli animali, proprio perché, in inverno, veniva a mancare l’erba fresca. Verso la fine del mese di agosto, “agost”, o al massimo ai primi di settembre iniziava un altro grande lavoro con la partecipazione di tutta la famiglia: la raccolta delle patate. Con un tridente, “furcòn a trii dinc”, si andava in profondità nel terreno per portare in superficie le patate novelle.  Bisognava evitare che il tridente andasse a bucare le patate, “patati” che dovevano essere senza buchi e graffi per poterle conservare fino al raccolto successivo.

Le donne e i bambini provvedevano a raccoglierle in mucchietti e venivano lasciate uno o due giorni al sole, affinché la terra umida che le ricoprivano, seccasse e le patate potessero essere insaccate pulite. Il contadino, prevenuto, le curava anche di notte perché c’erano sempre i malintenzionati che tentavano di rubarle.
Negli ultimi giorni del mese, il contadino si poteva permettere un poco di riposo, ma solo qualche giorno perché poi riprendeva il ciclo lavorativo già descritto. E l’anno ricominciava!

Con questo capitolo, si chiude la storia della vita della famiglia contadina. Oggi è tutto cambiato. C’è stato un ritorno di interesse e di studio in questi ultimi anni da parte dei ragazzi della Scuola Primaria, ma per loro rimane un periodo di storia come tanti altri affrontati durante l’anno scolastico. Tra le poche persone anziane rimaste e che hanno vissuto gli ultimi anni della vita contadina, c’è chi la ricorda con nostalgia, ma c’è anche chi, ricordando la fame e la miseria, preferisce la modernità di oggi: comunque la si pensi, bisogna essere orgogliosi delle nostre origini e del passato contadino perché è servito a costruire il nostro futuro.

Giulio Oggioni

L’ Aia vista dal cielo.
Una foto panoramica di questi ultimi anni, nella quale si vede, in basso a sinistra, l’Aia completamente restaurata e la nuova ala creata per gli uffici tecnici e una sala convegno. Nella foto del centro storico è visibile la Villa Gnecchi Ruscone, con il parco e la Fontana del Nettuno, il Centro Sportivo, diverse corti, il palazzo del Comune e della Scuola Primaria.